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Perché Aref sostiene i rifugiati politici del Tibet

La storia del Tibet è nota. Anni di occupazione violenta, da parte della Cina, su un territorio naturalmente pacifico e riservato. Ricchissimo di storia e di cultura. Pieno di valori etici e spirituali. Con un handicap solo: quello di essere appetibile, sia per i grandi spazi (2.5 milioni di chilometri quadrati, equivalenti a più di due terzi dell’India), che per la sua collocazione strategica di stato cuscinetto nel cuore dell’Asia. Un paese con un’altitudine media di 3.650 metri dove molte vette (tra queste l’Everest, la più alta della terra) superano gli 8.000 metri sul livello del mare. Chiamato, per questo “il paese delle nevi” o anche il “tetto del mondo”.

Un paese dal delicato ecosistema ormai irrimediabilmente compromesso. Trasformato in una vasta base militare (per oltre 500.000 soldati cinesi) che ospita un quarto della forza missilistica nucleare della Cina e enormi quantitativi delle sue scorie.

Un paese dove un quinto della popolazione (1.2000.000 persone) è stata uccisa e dove migliaia di prigionieri religiosi e politici vengono ancora detenuti in carceri e campi di lavoro da cui difficilmente si può uscire vivi. Perché le condanne (per reati di opinione) sono lunghissime e la tortura è pratica comune, anche sui minori, anche sulle donne.

Un paese dove più di seimila monasteri, edifici storici e templi sono stati razziati e distrutti. E dove, essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e della cultura tibetana, la repressione religiosa totale da parte delle autorità di Pechino, che è sempre stata massiccia, non accenna a diminuire.

Un paese dove l’occupazione, dal 1959 a oggi, ha esercitato la violazione di tutti i diritti. Quelli delle donne, con sterilizzazioni forzate. Quelli dei bambini. E anche quelli dell’istruzione e del poter apprendere la storia, la cultura, la lingua del proprio paese.

Un paese dove la discriminazione razziale è stata massiccia e dove i Tibetani sono diventati una minoranza nella loro stessa terra (ad oggi circa 6 milioni, contro i 7,5 milioni di non tibetani). E dove le condizioni economiche sono massacranti e inique, ponendo sotto la soglia di povertà tutte le zone rurali del paese.

Un paese infine dove, sin dal 1960, la Commissione di Giustizia Internazionale ha rilevato atti di genocidio e l’aperta violazione di molti articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. E dove a ben poco sono valse le Risoluzioni di condanna alla Cina da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Come le continue manifestazioni, in tante parti del mondo, perché i gravissimi atti di abuso perpetrati potessero, finalmente, cessare.

Una data, in particolare, segna l’inizio di questa storia: il 10 marzo del 1959 Sua Santità il XIV Dalai Lama del Tibet, i membri del suo Governo e circa 80.000 tibetani sono fuggiti dal Tibet e hanno cercato asilo politico in India, in Nepal, in Buthan e da lì in altri paesi. Dal 1960 “Kundun” (“la presenza”) risiede a Dharamsala, nello stato dell’Himachal Pradesh. Ha ricevuto nel 1989 il premio Nobel per la Pace.

E crede ancora, con incrollabile fermezza – dopo oltre 45 anni di esilio – in una possibilità di autonomia (se non di indipendenza) per il proprio paese e in una soluzione non violenta alla sua occupazione. Viaggiando per tutto il mondo, tenendo insegnamenti per i suoi fedeli, conferenze per chiunque lo voglia ascoltare e dando il suo contributo alla diffusione dei principi della equanimità, della giustizia e della pace.

Per i Tibetani non è solo un Buddha, un indiscusso capo politico e spirituale. Ma anche il simbolo della speranza. E colui che, anche con l’aiuto del Governo Indiano e di Organizzazioni Internazionali, ha garantito la loro attuale esistenza in esilio. Nei molti centri di artigianato  e insediamenti agricolo-industriali. Nelle scuole, che al momento ospitano circa 23.000 bambini. Nei tanti monasteri ricostruiti nei paesi ospitanti. E nelle altre istituzioni che aiutano a preservare e a promuovere, al di fuori del paese di origine dove rischia l’estinzione, la antica eredità linguistica e culturale del popolo Tibetano.

Perché fuori dal Tibet

Per tutte le cose solo sommariamente accennate, l’Aref ha deciso di dedicare il proprio impegno rivolgendolo ai Tibetani, in particolare a quelli che vivono, come rifugiati politici, fuori dal loro paese.

Di sostenere, cioè, quelle persone adulte, quei bambini e quelle famiglie che hanno “scelto” la via dell’esilio e che sono riuscite ad attraversare l’Himalaya, sopravvivendo al gelo e all’ipotermia, dopo essere sopravvissute al peso devastante dell’invasione.

Nell’augurio – che vorremmo certezza – di un investimento utile. Non solo nel caso di un possibile “libero ritorno” dei Tibetani nella loro terra, ma nello spirito di contribuire a mantenere in vita, in terra d’esilio, la loro storia, la loro religione e la loro millenaria cultura. In linea con le semplici e toccanti parole del Dalai Lama:

“La cultura tibetana appartiene a tutta l’umanità e la sua estinzione sarebbe una perdita, non solo per i Tibetani, ma per il mondo intero. Pertanto mi rivolgo alla gente di ogni cultura perchè aiuti i Tibetani a preservare la loro eredità culturale così ricca e unica”