Tashi Wangchuk è ancora in carcere per aver promosso l’uso della lingua tibetana in Cina

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Tashi Wangchuk è ancora in carcere per aver promosso l’uso della lingua tibetana in Cina

Il difensore della lingua tibetana Tashi Wangchuk sta scontando il suo terzo anno carcerario in Cina con l’accusa di aver promosso l’uso della lingua nativa, come riporta Radio Free Asia. Si tratta di una palese violazione dei diritti umani, anche perché il lavoro dell’attivista – documentato dal New York Times anni addietro – è di espressione pacifica.

La storia di Tashi Wangchuk

Tashi Wangchuk è nato nel 1985 a Kyegudo, nella prefettura autonoma tibetana Yulshul, della provincia del Qinghai. Il suo attivismo per la difesa del Tibet si è espresso fin da subito nella promozione della lingua tibetana nelle scuole. Il 1° dicembre 2015, il New York Times ha documentato la sua opera con un videoreportage, nel quale Tashi Wangchuk viene ripreso in viaggio verso Pechino per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della lingua locale.

Il 4 gennaio 2018 lo stesso video fu utilizzato dal tribunale di Yulshul per condannare l’attivista a cinque anni di reclusione, con l’accusa di diffondere sentimenti separatisti, dai quali lo stesso detenuto si è sempre dissociato. Il controverso processo è arrivato dopo l’arresto di Tashi Wangchuk datato 27 gennaio 2016, proprio a seguito del filmato della testata giornalistica americana. Danielle Rhoades, portavoce del New York Times Company, ha definito la mossa della Corte “un’azione che sembrava intesa a mettere a tacere i critici, impedire il libero flusso di informazioni e privare i cittadini cinesi dell’informazione”.

Cosa si sta facendo per la sua liberazione?

Tutt’oggi la richiesta di scarcerazione dell’attivista viene portata avanti da associazioni che difendono i diritti umani. Su RFA è intervenuto James Tagger, vicedirettore della Freedom of Expression presso l’organizzazione PEN America – The Freedom of Write. “Abbiamo ripetutamente espresso il fatto che Tashi Wangchuk non meritava di essere condannato anche per un solo giorno – ha sottolineato Tagger -, dato che la sua difesa pacifica non era in alcun modo criminale”. Il triste anniversario (caduto il 28 gennaio 2019) è “un appuntamento doloroso per la sua famiglia”, ma che dovrebbe riguardare “chiunque, ovunque, che sia preoccupato dei diritti delle lingue delle minoranze e del nostro diritto come esseri umani di sostenere pacificamente le nostre comunità e di esprimere noi stessi e la nostra cultura”.

L’avvocato difensore Francisco Bencosme (Asia-Pacific Advocacy Manager presso Amnesty International a Washington DC) ha dichiarato, sempre a RFA, che gli sono stati vietati ogni contatto con Tashi Wangchuk dopo la reclusione. “Questo dimostra – ha sentenziato Bencosme – fino a che punto il governo cinese è disposto ad andare a molestare e impedire al mio cliente di ottenere il diritto a un avvocato che merita, anche secondo la legge cinese”. La stessa Amnesty International, nel maggio 2018, aveva definito la condanna all’attivista come “una grave ingiustizia” che punisce crudelmente chi attira “pacificamente l’attenzione sull’erosione sistematica della cultura tibetana”.

Articolo di Angelo Andrea Vegliante