La nostra storia. I passi iniziali e il perché delle scelte

di Marilia Bellaterra

Niente è per caso …

A Gennaio 2001 la mia vita ha subito una svolta. Dolorosissima, tanto prevedibile quanto irrazionalmente inattesa. Mio padre Franco e mia madre Rina hanno lasciato la loro vita terrena, a un solo mese di distanza uno dall’altra. Erano genitori molto più che “speciali”, nonni capaci di affettività rara e coppia altrettanto “speciale”, sia nelle divergenze che nell’unione di 53 anni, sempre condivisi. E’ qui impossibile enumerare i loro incancellabili “regali”, i loro insegnamenti preziosi, la loro testimonianza di una vita intera spesa tra generosità, coraggio ed etica. E la loro capacità di trasmettere, giorno per giorno, analoghi valori, incarnati da precedenti generazioni. Se mai si è pronti a questo genere di “perdita” io non lo ero. E dopo lunghissimi mesi di divorante dolore, sento come un loro ennesimo regalo l’occasione, del tutto imprevista, di un viaggio in Ladakh. Poi, dal bordo del Pakistan, in Kashmir e in Punjab.

Prima di tornare a casa avevo sfiorato – per caso – l’idea di raggiungere Dharamsala. La sede del Governo tibetano in esilio, dove (quando non è in giro per il mondo) vive Sua Santità Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, capo politico e spirituale di tutti i Tibetani. Ma il tempo del ritorno stringeva e quel piccolo centro, simbolo di ricostruzione e di pace, è rimasto solo un desiderio.

Poco prima di Natale ho ricevuto una lettera. Un interlocutore a me sconosciuto mi informava – per caso – che il Dalai Lama avrebbe trascorso alcuni giorni in Italia. Non ho mai capito come e perché quella lettera mi sia arrivata. Ma mi è sembrato impossibile non andare. A Cecina in Toscana c’erano migliaia di persone: fedeli e praticanti pronti ad apprendere dalle sue parole, insieme ad alcuni curiosi. 

Tra questi io, che non sono buddhista e che del Tibet avevo, a quel tempo, solo una scarna conoscenza di repertorio.

Dire che Kundun (“la presenza”), come lo chiamano i Tibetani sia di qualità non comuni è poca cosa. Ma è solo un modo per descrivere, in minima parte, la complessità e il carisma di questa persona. Grande e umile, profonda e raggiungibile, complessa e tenace, che incarna concordia, impegno e armonia. Che parla a ciascuno anche in mezzo a una folla e radica un sorriso persistente nella mente e nel cuore. Dunque un “essere umano” davvero speciale. E, per ogni buddista, XIV emanazione di Avalokiteshvara, il Buddha della compassione.

Tornata a Roma ho cominciato a esplorare il web alla ricerca di notizie su di Lui e sulla storia del Suo paese. Tra le tante pagine, una si è aperta – per caso – il sito di Geshe La Gedun Tharchin, Lama tibetano residente nella mia città, a un passo da casa mia.

Così ho conosciuto l’Istituto Lam Rim, centro di studi buddisti e Geshe La, suo maestro spirituale. Serio e profondo come tutti i maestri veri, ma anche “leggero”, sempre pronto a sorridere e contagioso per la sua rasserenante allegria.

Lui mi ha fatto conoscere Tsering Paljor. Un giorno mi ha detto: “Ti va di dargli una mano?” La mia storia di sponsor è cominciata così – per caso – con un piccolo monaco proveniente dal Tibet. Tsering aveva lasciato a 7 anni la sua famiglia e, come migliaia di altre persone sfuggite all’occupazione del suo paese, aveva attraversato l’Himalaya arrivando in India da rifugiato. E’ stato educato come monaco per desiderio dei suoi genitori e la sua nuova casa è diventata un Monastero in uno dei tanti campi per Rifugiati Tibetani voluti dal Dalai Lama, il Doeguling Tibetan Settlement di Mundgod, nello stato del Karnataka. Insieme a circa 15.000 tibetani, monaci e laici, che mantengono con tenacia, in esilio, le tradizioni del loro paese.

L’estate del 2002, dopo un lungo viaggio in Tibet e Nepal, sono tornata in India di nuovo e, dando spazio a un desiderio, forse non del tutto ragionevole, ho accettato la gentile offerta dell’abate del Monastero di Mundgod di conoscere Tsering. Ho attraversato tutto il paese, dal nord fino a Goa e sono arrivata al Gajang Gyalrong Monastery, senza poter immaginare le conseguenze che questa decisione avrebbe portato.

Non sono mai stata facile preda di fascinazioni, non avevo vuoti colmabili o desideri da trasformare. E la mia vita – dopo gli anni complessi e dolorosi della malattia dei miei genitori e della loro morte – era tornata a scorrere piena dei miei, soliti impegni, sempre numerosi.

Non credevo quindi che le tante storie, direttamente “ascoltate” e “viste”, sulle conseguenze di un cinquantennio di occupazione del Tibet da parte del Governo di Pechino – occupazione iniqua e violenta, come tutte le occupazioni lo sono – mi avrebbero tanto colpita. Di più, non credevo che, in un certo senso, avrebbero potuto cambiarmi la vita.

Da allora sono passati molti anni. Tanti e pochissimi insieme.

Anni in cui è nata questa Associazione. Con il nome dei miei genitori – che erano persone di pace – a rappresentare il mio impegno a favore di chi non ha né risorse né pace e, a volte, nemmeno speranze. Di chi, pur avendo perduto libertà e patria, non ha perso altruismo, tenacia e nemmeno il sorriso. Da queste persone povere e ricchissime ho imparato davvero tanto. E riconosco sempre più irrilevante il poco che ho dato, se penso al “tanto” che ho ricevuto.

In questi anni l’Associazione si è “definita”. Ha mosso i suoi primi passi, ha fatto i suoi primi errori, ha cercato di correggerli. Ha aggiustato il tiro, ridimensionando la grandiosità teorica di taluni programmi. Ha approfondito le conoscenze, attivato sinergie, presentato e vinto progetti, realizzato iniziative anche di promozione sociale. E, soprattutto, ha consolidato i presupposti di partenza e posto le basi per i lavori futuri. Durante questo cammino “Kundun” è stato sempre una guida. Ideale e affettiva. Per tutte le volte che, in Italia e all’estero, lo abbiamo seguito. Per le volte che abbiamo avuto il privilegio di incontrarlo di persona, in pubblico e anche in privato. E per le volte che ha riconosciuto, direttamente con le sue parole o con alcuni messaggi ufficiali, la sincerità del nostro “piccolo” impegno a favore della gente del suo paese.

Un inizio emozionante

Quando l’ho conosciuto di persona nel 2002, Tsering Paljior aveva 12 anni. Era pieno di risorse e di “cicatrici”, con un sorriso solare e una carica vitale contagiosa ed esplosiva. Ma soprattutto aveva – e ha sempre continuato ad avere – un grande cuore.

Tralascio le tante piccole e grandi cose che mi ha insegnato nei primi 10 giorni che ho trascorso nel suo Monastero. Senza sapere lui una parola di inglese né io di tibetano mi ha fatto capire storie e simboli della sua terra, mi ha accompagnato a visitare i luoghi di culto e di studio della sua nuova “casa”. Mi ha fatto ridere, sorridere, pregare le sue preghiere a me sconosciute, seguire i suoi esercizi estenuanti per memorizzare i testi sacri, a voce alta fino alle 11 di notte, camminando per contrastare il sonno e le zanzare. Si è emozionato quando sono entrata nella sua classe. Ha cucinato per me. Mi ha accompagnato ovunque. Mi ha presentato ai suoi amici. Ha disegnato per me Topolino (!). E ogni volta che un interprete glielo consentiva, mi ha spiegato in dettaglio, tutto quello che poteva e che sapeva, mettendosi sempre dal mio punto di vista per facilitarmi il benessere e la comprensione. Il giorno della mia “prima” partenza mi ha girato le spalle giusto in tempo per non farsi vedere triste. E poi mi ha fatto il dono di questa conversazione (testuale), pregando l’interprete di tradurre con molta attenzione: “Ho pensato a cosa potevo darti, io sono piccolo e non ho molto. Però questa borsa e questo cestino intrecciato te li posso donare. Li ha fatti a mano mia madre, per me, prima che partissi dalla mia casa”. Io, che nella mia occidentalità stupida, avevo “comprato” in Italia i miei regali per lui, ho obiettato. Le sue cose mi sembravano troppo “preziose”. E la sua risposta – “è proprio perché mia madre le ha fatte per me che te le voglio affidare” – mi segue, sempre, insieme al suo sorriso. 

Tsering Paljor è stato il primo bambino aiutato dall’Associazione e ne è diventato il simbolo. Alla fine del 2007 ha riconsegnato all’Abate del Monastero la sua tonaca di monaco e ha scelto di orientare diversamente la sua vita. Ha iniziato il servizio militare a Dehradun, dove si trova tutt’ora. Tsering continuerà ad essere il nostro simbolo anche quando avrà figli suoi. Il suo sorriso e la sua resilienza tenace sono stati e continueranno a essere un’ispirazione costante per i nostri progetti e una guida “speciale” per il nostro lavoro.

Perchè proprio il Tibet

La storia del Tibet è nota. Anni di occupazione violenta, da parte della Repubblica popolare Cinese, su un territorio naturalmente pacifico e riservato. Ricchissimo di storia e di cultura. Pieno di valori etici e spirituali. Con un handicap solo: quello di essere appetibile, sia per i grandi spazi (2.5 milioni di chilometri quadrati, equivalenti a più di due terzi dell’India), che per la sua collocazione strategica di stato cuscinetto nel cuore dell’Asia.

Un paese con un’altitudine media di 3.650 metri dove molte vette (tra queste l’Everest, la più alta della terra) superano gli 8.000 metri sul livello del mare. Chiamato, per questo il “paese delle nevi” o anche il “tetto del mondo”.

Un paese dal delicato ecosistema ormai irrimediabilmente compromesso. Trasformato in una vasta base militare (per oltre 500.000 soldati cinesi) che ospita un quarto della forza missilistica nucleare della Cina e enormi quantitativi delle sue scorie.

Un paese dove un quinto della popolazione (1.2000.000 persone) è stata uccisa e dove migliaia di prigionieri religiosi e politici vengono ancora detenuti in carceri e campi di lavoro da cui difficilmente si può uscire vivi. Perché le condanne (per reati di opinione) sono senza fine e la tortura è pratica comune, anche sui minori, anche sulle donne.

Un paese dove più di 6.000 monasteri, edifici storici e templi sono stati razziati e distrutti. E dove, essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e della cultura tibetana, la repressione religiosa totale da parte delle autorità di Pechino, che è sempre stata massiccia, non accenna a diminuire.

Un paese dove l’occupazione, dal 1949 a oggi, ha esercitato la violazione di tutti i diritti. Quelli delle donne, con sterilizzazioni forzate. Quelli dei bambini. E anche quelli dell’istruzione e del poter apprendere la storia, la cultura, la lingua del proprio paese.

Un paese dove la discriminazione razziale è stata massiccia e dove i Tibetani sono diventati una minoranza nella loro stessa terra (circa 6 milioni, contro i 7,5 milioni di non tibetani). E dove le condizioni economiche sono massacranti e inique, ponendo sotto la soglia di povertà tutte le zone rurali del paese.

Un paese infine dove, sin dal 1960, la Commissione di Giustizia Internazionale ha rilevato atti di genocidio e l’aperta violazione di molti articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. E dove a ben poco sono valse le Risoluzioni di condanna alla Cina da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Come le continue manifestazioni, in tante parti del mondo, perché i gravissimi atti di abuso perpetrati potessero, finalmente, cessare.

Una data, in particolare, segna l’inizio di questa storia: il 10 marzo del 1959 Sua Santità il Dalai Lama, i membri del suo Governo e circa 80.000 tibetani sono fuggiti dal Tibet e hanno cercato asilo politico in India, in Nepal, in Buthan e da lì in altri paesi.

Dal 1960 Kundun risiede a Dharamsala, nello stato dell’Himachal Pradesh. Ha ricevuto nel 1989 il premio Nobel per la Pace. E crede ancora, con incrollabile fermezza – dopo oltre 50 anni di esilio – in una possibilità di autonomia per il proprio paese e in una soluzione non violenta alla sua occupazione.

Viaggiando per tutto il mondo, tenendo insegnamenti per i suoi fedeli, conferenze per chiunque lo voglia ascoltare e dando il suo contributo alla diffusione dei principi della equanimità, della giustizia e della pace.

Per i Tibetani non è solo un Buddha, un indiscusso capo politico e spirituale. Ma anche il simbolo della speranza. E colui che, anche con l’aiuto del Governo Indiano e di Organizzazioni Internazionali, ha garantito la loro attuale esistenza in esilio. Nei molti insediamenti agricolo-industriali e centri di artigianato. Nelle scuole, che al momento ospitano più di 20.000 bambini. Nei tanti monasteri ricostruiti nei paesi ospitanti. E nelle altre istituzioni che aiutano a preservare e a promuovere, al di fuori del paese di origine dove rischia l’estinzione, la antica eredità linguistica e culturale del popolo Tibetano.

Perché fuori dal Tibet

Per tutte le cose solo sommariamente accennate, abbiamo deciso di dedicare il nostro impegno rivolgendolo ai Tibetani, ma al di fuori dal Tibet. Di sostenere, cioè, quelle persone adulte, quei bambini e quelle famiglie che hanno “scelto” la via dell’esilio e che sono riuscite ad attraversare l’Himalaya, sopravvivendo al gelo e all’ipotermia, dopo essere sopravvissute al peso devastante dell’invasione.

Nell’augurio – che vorremmo certezza – di un investimento utile, sia nel caso di un possibile “libero ritorno” dei Tibetani nella loro terra, sia nel caso di un mantenimento in vita della loro storia anche se fuori del loro paese.

Prove ed errori

Abbiamo fatto molti sbagli all’inizio del nostro percorso. Intanto quello di non misurarci né con le nostre energie reali, né con la complessità sociale politica del paese in cui stavamo portando il nostro lavoro. Ci sembrava semplice aiutare e spaziare. Da chiunque o da qualunque parte la proposta fosse arrivata. Poi abbiamo imparato a ridimensionare con umiltà e differenziare con cura.

Abbiamo trovato dei referenti locali che ci tutelassero, sia per raccogliere le quote e i messaggi, sia per segnalare i casi più urgenti e bisognosi di avere un sostegno.

All’inizio è stato necessario anche attivare contatti diretti con le Banche locali. Spiegare, chiedere e comprendere logiche, priorità e tempi diversi. I primi versamenti, specie se individuali, a volte sono andati “smarriti” e l’Associazione ha provveduto a proprio onere a ripristinare le quote. Altre volte abbiamo aspettato dei mesi per ricevere i riscontri ufficiali e pagato troppo per le commissioni.

Poi abbiamo imparato. A raggruppare versamenti, a trattare clausole. Ma soprattutto abbiamo imparato a selezionare i referenti locali che ci dessero garanzie migliori.

Ad oggi i nostri referenti sono l’Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama e la Central Tibetan Administration per l’India del Nord e il Doeguling Tibetan Settlement, insieme al Gajang Gyalrong Monastery per l’India del Sud. Organismi che hanno mostrato, oltre ai rapporti interpersonali sempre arricchenti e affettivi, un’attenzione, una tempestività, una serietà e una efficienza davvero speciale.

Abbiamo imparato, infine, a vagliare. E dicendo di no, abbiamo imparato che, selezionando le richieste possibili, riuscivamo a impiegare meglio le nostre energie.

Difficoltà e apprendimenti

Guardando a ritroso direi che alcune difficoltà incontrate sono state “esterne”. La burocrazia, come sempre esasperante. Ritmi più lenti con cui dover coabitare. E poi alcuni aspetti organizzativi, sociali e molto concreti che a volte ci hanno fatto sentire il limite e il peso del nostro lavoro.

Ma altre difficoltà sono state “interne”. Da parte nostra, per esempio, la responsabilità di selezionare e scegliere. E da parte di alcuni sponsor quella di certe defezioni impreviste. Il sostegno a distanza, infatti, pur non essendo un “obbligo” per tutta la vita, resta sempre e comunque un impegno. Non solo per l’aspetto meramente economico. Per il quale, in mancanza, fa fronte la stessa Associazione. Ma per l’investimento quanto meno amicale e, sicuramente reciproco che si crea tra sponsor e persona sponsorizzata.

Ci è capitato raramente che chi riceveva non volesse, in qualche modo “restituire”. Si trattava magari di piccole cose, dal valore economico irrilevante ma uniche da quello emotivo. Cartoline, ad esempio, attinenti alla nostra cultura. Disegni incerti di simboli ignoti per le piccole dita di chi li avevano copiati a fatica … Oppure pagelle di scuola, mandate dai genitori quasi a garanzia del buon impiego del denaro ricevuto per il proprio bambino. O lettere (e-mail a volte) con stralci di vita, grazie dal cuore e certezza di essere nelle loro preghiere. O foto di bimbi ben pettinati … scattate perché se ne potesse documentare il benessere insieme alla crescita. E poi kata (le bianche sciarpe simboliche e ben augurali), saponette, incensi, stoffe intrecciate, collane per la preghiera …

Ogni volta che sono tornata a Mundgod e Dharamsala – un po’ per ricaricarmi personalmente di energie e un po’ per la mia “ispezione” annuale di verifica e controlloho sempre fatto una visita a tutte le famiglie sostenute dagli sponsor. E sono sempre tornata carica, con una piccola borsa aggiuntiva, piena di commoventi regali. Tre biscotti un giorno, o una tenda una volta, staccata direttamente dalla finestra di casa. Regali impossibili da rifiutare, fatti da persone molto povere per esprimere gratitudine a chi le stava aiutando e per riequilibrare il legame, da un ricevere passivo a un possibile scambio.

Qualche sponsor ha, al contrario, ecceduto. E’ stato magari troppo solerte. E, così facendo ha stimolato troppo non solo la curiosità ma anche il desiderio. Di un mondo che sembra migliore solo perché si trova lontano. Abbiamo sempre cercato di proteggere adulti e bambini da questo errore. Credo che ci siamo (quasi) sempre riusciti. E che, come nella mia personale esperienza, lo sponsor abbia sempre finito per imparare – e per prendere – molto più di quanto pensava di poter “regalare”.

Un percorso da fare insieme

All’inizio eravamo da soli. E ci siamo accorti, in fretta, che da soli non si poteva viaggiare. Abbiamo scelto due referenti: Il Coordinamento per il Sostegno a Distanza “La Gabbianella” e l’Associazione Italia TibetCon loro, a diversi livelli, politico e organizzativo, il confronto è stato sempre molto arricchente, sia nelle esperienze che nelle opportunità condivise. Senza che la scelta fosse escludente nei confronti di altri, ma solo privilegiata per condivisione di approcci e di pensiero.

Abbiamo imparato molto e, credo, anche restituito. Senza la presunzione di sentirci uguali a chi si dedica da moltissimi anni a questo lavoro, ma riconoscendoci anche il privilegio dell’entusiasmo di chi sta cominciando. E con la gratitudine per chi ci ha offerto di condividere un’esperienza di solidarietà sociale pur nella peculiarità degli orientamenti del proprio cammino.

Si riparte sempre … ma non si riparte da zero

Il sostegno a distanza (SAD) è ormai cosa nota. Sia come forma etica di solidarietà sociale, sia come esperienza arricchente di vita. E anche nella storia della Associazione questa formula di impegno è una prassi ormai consolidata. Quindi, ad oggi, siamo in grado di gestire un numero crescente di sponsor, di attivare pratiche locali agevoli ed efficienti, di evitare perdite di tempo e molti dei principali errori.

Abbiamo, però, maturato con l’esperienza, anche l’idea che il SAD non possa bastare. E che debba affiancarsi, piuttosto, ad altre iniziative territoriali locali (ITL), capaci anche di automantenimento e di sviluppoIn questo senso abbamo iniziato a partecipare, sempre più attivamente ad alcuni importanti progetti, sia di imprenditoria locale che di promozione – sociale, formativa e scolastica – sia locali che all’interno del nostro paese.

Pensiamo, infatti, che un modo per “aiutare”, con garanzia di mantenimento nel tempo, sia proprio quello di diffondere, di informare, di far in modo che il numero maggiore possibile di persone sappiano e diffondano, a loro volta, le informazioni e le esperienze che hanno vissuto. Vanno in questa direzione i progetti (realizzati e in corso) di iniziative culturali, di mostre fotografiche e di manifestazioni finalizzate, appunto, alla sensibilizzazione e alla conoscenza. All’interno di iniziative culturali, o incluse nella formazione di operatori sociali, o inserite nelle istituzioni scolastiche attraverso programmi specifici, sia con gli alunni che con i loro insegnanti. Come pure i tirocinanti e i volontari accolti in affiancamento alle iniziative sul territorio nazionale, oltre che nei viaggi istituzional periodici in India del Nord e del Sud.

Contemporaneamente sono inziate le attività di sostegno a iniziative territoriali locali. Collaborando, ad esempio, alle attività di un Centro a Dharamsala per ragazzi disabili, realizzando visite di tutor, stagisti e sponsor nel campo dei profughi tibetani di Mundgod. Contribuendo al mantenimento di alcuni artisti afferenti al Tibetan Settlement, al fine di preservare le tradizioni artistiche e musicali del loro paese. Affiancando l’impegno di piccole scuole e Monasteri. Attivando progetti locali di collegamento tra persone anziane nate in Tibet e bambini nati in Esilio. E sponsorizzando una particolarissima iniziativa editoriale: “The Quest“, un Magazine di impronta sociale e politica curato dai giovani monaci della Norling Thoesam Monastic School di Mundgod.

Un augurio e un desiderio

Per finire, un augurio e un desiderio. Che quanti hanno avuto la pazienza di leggere queste pagine, scritte con la semplicità derivante dall’esperienza diretta, abbiano anche la voglia di approfondire, la generosità nel diffondere e la curiosità di provare. E che possano avere il privilegio di incontrare tante persone davvero “speciali, come quelle che abbiamo incontrato noi nel nostro viaggio e che continuano a segnare, con la loro “presenza”, il nostro cammino. Sempre, tra queste, “Kundun” che continua ad affiancare tanti momenti importanti della mia vita. Come l’immagine conclusiva di questa udienza “speciale” di Kundun nel 2014, dono prezioso per me e per mio figlio Francesco Codispoti, consigliere di questa Associazione.