Stress da Coronavirus: sono colpiti anche i bambini tibetani rifugiati?

bambini tibetani a rischio stress da Coronavirus

Stress da Coronavirus: sono colpiti anche i bambini tibetani rifugiati?

In un nostro recente articolo, abbiamo sottolineato l’esigenza di puntare i riflettori sul tema dello stress da Coronavirus. In Italia, infatti, sono stati registrati un aumento dei casi di disturbi psicologici (tra cui ansia e depressione) imputabili al rigido lockdown e alle impressioni poco rosee per il futuro della società.

Trattandosi di una pandemia, siamo di fronte a una situazione che riguarda tutti, ed è quindi ipotizzabile che, anche nel resto del mondo, lo stress da Coronavirus stia causando effetti negativi.

Stress da Coronavirus: il caso dei bambini tibetani

Lo sa bene Tenzin Gyalpokhang che, in un suo articolo d’opinione pubblicato su Phayu.com, descrive una situazione poco rosea per i bambini tibetani, soprattutto per quelli fuggiti dalla propria terra natia per rifugiarsi in India.

Secondo l’autore del pezzo, infatti, ci sono serie probabilità che lo stress da Coronavirus stia colpendo anche i rifugiati bambini tibetani. La tesi è sostenuta da una ricerca dell’Università di Ermory datata 2008, che sollevava una questione molto seria: “i bambini nati in Tibet che sono fuggiti in India presentavano significativamente più ansia e sintomi depressivi rispetto ai bambini nati in esilio”.

A oggi, però, non esistono studi atti a conferma che questo trend sia costante o aumentato a causa del nuovo Coronavirus, ma l’ipotesi può dirsi plausibile.

“Lo studio – continua Gyalpokhang – ha suggerito che uno dei fattori per l’ansia più alta e i sintomi depressivi dei bambini fuggiti dal Tibet potrebbe essere la mancanza di contatto con la famiglia“.

Come sono stati tutelati i bambini rifugiati tibetani in esilio?

Se dunque il rapporto con la propria famiglia è fondamentale per qualsiasi bambino, allora bisogna indagare sui vissuti, in questi mesi di pandemia, di bambini Tibetani in esilio che, nella stragrande maggioranza dei casi, già soffrono per la “distanza” fisica dalle loro famiglie. Distanza che, sebbene lenita dalla vita comunitaria all’interno dei Tibetan Children Village, delle Comunità monastiche e degli insegnanti che se ne prendono cura, resta comunque incolmabile e molto dolorosa.

Secondo Gyalpokhang, i piccoli rifugiati tibetani, impossibilitati a tornare nella propria casa, sono stati indirizzati nei Khimstang, case affidatarie di gruppo, in ostelli o a parenti lontani. Condizioni che possono creare, comunque, diverse problematiche.

famiglia tibetana

Quando un Khimstang deve operare in una condizione più grande di sé

Innanzitutto, “questa mancanza di protezione e sostegno immediato da parte della famiglia potrebbe avere effetti di vasta portata e significativo sullo sviluppo fisico ed emotivo dei bambini piccoli”. Il problema in sé non riguarda i Khimstang, ma le condizioni di distacco tra bambini e genitori.

Paradossalmente, questi luoghi sono diventati “il centro dell’educazione di un bambino”, e le figure di riferimento parentali sono gli addetti ai lavori che sicuramente “hanno molta esperienza nel fornire aiuto agli studenti nelle faccende quotidiane”, ma hanno “una formazione limitata e una mancanza di background educativo per aiutare gli studenti con il lavoro scolastico”.

Certo, gli studenti più grandi possono aiutare quelli più piccoli, c’è lo smart-studying, ma ci sono casi in cui questi centri “potrebbero non disporre dell’infrastruttura per fornire l’apprendimento remoto”.

Come accade in Italia, quindi, potrebbero essere delle situazioni di disparità sociale. E, dunque, molti bambini potrebbero restare indietro nell’apprendimento educativo. Una situazione a cui serve una soluzione massiccia e repentina da parte delle istituzioni locali.

Articolo di Angelo Andrea Vegliante