Universal Periodic Review: Cina bocciata dall’Onu per le troppe preoccupazioni sulle violazioni dei diritti umani

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Universal Periodic Review: Cina bocciata dall’Onu per le troppe preoccupazioni sulle violazioni dei diritti umani

Martedì 6 ottobre 2018, la Cina è stata sottoposta all’Universal Periodic Review (UPR), l’esame quinquennale dell’ONU istituito per delineare come e quanto ognuno dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite rispetti i diritti umani. Temi centrali dell’agenda del meeting: Tibet e Xinjiang. Il tutto anticipato dalle proteste fuori il plais des Nations (Ginevra) di circa un migliaio di tibetani e uiguri.

Diritti umani: UPR non positivo per la Cina

Gran Bretagna, Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia e molte altre nazioni hanno espresso gravi preoccupazioni in merito alla libertà religiosa negata a tibetani e uiguri. In particolar modo, al centro della revisione sono stati messi i “centri di rieducazione“, all’interno dei quali sarebbero internati circa un milione di uiguri.

L’ambasciatore francese Francois Rivasseau ha sottolineato la necessità di “fermare la prigionia di massa” e “garantire la libertà di religione e credo“. Dello stesso avviso, la delegazione tedesca, che ha esortato il Governo di Pechino a interrompere “tutte le detenzioni illegali, inclusa la reclusione incostituzionale di massa dei musulmani nello Xinijang“. Intanto, Stati Uniti, Canada, Giappone e Australia stanno varando la possibilità di ricorrere al Global Magnitsky Act, così da imporre sanzioni contro i funzionari cinesi coinvolti nella repressione etnica. Anche se, già da qualche tempo, Trump ha fatto la sua mossa in merito con il Reciprocal Access to Tibet Act.

Trattamento degli avvocati: giudizio negativo

Durante l’incontro di Ginevra, è stata sollevata anche la questione del trattamento degli avvocati per la difesa dei diritti umani. In quanto, da diversi anni, gli stessi vengono sottoposti a campagne di arresto sempre più agguerrite. Nella fattispecie, sono stati ricordati i casi di Wang Quanzhang (in custodia dal 2015), Tashi Wangchuck (condannato a 5 anni di carcere per aver promosso la lingua tibetana) e Ilham Tohti (attivista uiguro). Infine, la Cina non ha concesso chiarimenti ufficiali riguardo l’espulsione da Hong Kong del reporter del Financial Times Victor Mallet.

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(Fonte: livemint.com)

Le Yucheng: “Nessuno può dettare la definizione di democrazia”

La Repubblica popolare cinese ha risposto duramente alla bocciatura dell’Universal Periodic Review per mano di Le Yucheng, vice ministro degli Esteri. “Non accetteremo accuse di matrice politica da parte di paesi pieni di pregiudizi“, ha tuonato. “Pechino protegge i diritti delle minoranze etniche in conformità con la legge. Nessun paese ha il diritto di dettare la definizione di democrazia e diritti umani“.

A dispetto delle altre nazioni, Corea del Nord, Siria, Cambogia, Cuba, Kenya, Namibia e Sud Africa hanno votato positivamente le misure cinesi in merito alla difesa dei diritti umani. Al Guardian, Frances Eve, ricercatrice presso Chinese Human Rights Defenders, ha riferito che Pechino “ha sempre sfruttato i suoi muscoli economici per assicurarsi un trattamento amichevole da parte degli stati alleati, ma è sorprendente sentire alcuni paesi esprimersi a sostegno degli sforzi con cui la Cina sta cercando di cambiare il sistema internazionale per sostenere il proprio programma anti-diritti umani”.

Human Rights Watch: “La Cina costringe monaci tibetani a diventare propagandisti del partito comunista”

In parte, l’esito dell’UPR era stato previsto dalla Human Rights Watch, organizzazione non governativa internazionale, con sede a New York, che si occupa della difesa dei diritti umani. Lo scorso 30 ottobre, infatti, l’ente aveva denunciato il tentativo della Repubblica di “cinesizzare la Religione in Tibet“. In particolare, “Pechino costringe i monaci prescelti nella Regione autonoma del Tibet a una formazione politica volta a creare un nuovo corpo di insegnanti buddisti esperti in ideologia di stato“.

Sophie Richardson, direttrice di Human Rights Watch, ha affermato che “le autorità cinesi hanno sempre posto vincoli pesanti sulla libertà religiosa, in particolare in Tibet e in altre regioni. Monaci e monache tibetane molto persuasivi prendono sempre più campo a nuovi livelli e sono propagandisti del Partito comunista cinese in maniera anormale. L’inserimento delle autorità del dogma politico nel programma di studi religiosi e l’introduzione di monaci che indottrinano altri monaci deve indurre a riflettere sull’ostilità di Pechino alla libertà di credo religioso“.

Articolo di Angelo Andrea Vegliante